La Baita del Pastore e le mucche che sfiorano il precipizio

Ciro Ferrigno in ’50 Anni di gite’ narra quella che fecero nel 2004 in Valtellina, dove ebbero modo di godere fino in fondo la bellezza di questo angolo di mondo e ci si organizzò per un fuoriprogramma d’eccezione

Foto tratta dalla pagina di Facebook di Ciro Ferrigno

(Fonte Ciro Ferrigno – 50 Anni di gite)

Il venerdì 30 luglio 2004 è il penultimo giorno della nostra vacanza estiva in Valtellina; è il nono giorno di permanenza ed è prevista una mattinata di riposo, in vista del lungo viaggio di ritorno. Eppure, alcuni di noi siamo intenzionati a godere fino in fondo la bellezza di questo angolo di mondo e ci organizziamo per un fuoriprogramma d’eccezione. Nella piazzola dell’albergo Derby, dove soggiorniamo, ci aspetta un fuoristrada per un’escursione magnifica; abbiamo scelto la Valle dello Zebrù. Il conducente è un omaccione, un tipo “tosto”, un montanaro che conosce ogni angolo di questo paradiso che è il Parco Nazionale dello Stelvio.

Lasciamo la strada asfaltata dopo San Nicolò e Madonna dei Monti ed iniziamo la salita, percorrendo un’ampia mulattiera. Il fuoristrada entra nel pieno del bosco di abeti, tra scossoni che ci fanno sobbalzare e ridere a crepapelle. Dove il sole filtra tra i rami degli alberi, vediamo fiori multicolori d’alta montagna che formano chiazze di colore, poi ancora sorgenti e rigagnoli. Arriviamo alle Baite dello Zebrù e la guida ci suggerisce una breve sosta per guardare tutto intorno le montagne, le cime. Ce le indica con l’indice puntato verso il cielo: la Cresta del Reit sopra Bormio, sua maestà l’Ortles che sfiora i quattromila metri d’altezza, il Gran Zebrù, il Cevedale, il Vioz e la Punta San Matteo. Sono creste che come lame di coltelli tagliano l’azzurro del cielo, sfiorano l’infinito e ti fanno sentire immensamente piccolo.

Tornati in macchina, saliamo ancora e vediamo che gli alberi si diradano e cedono il passo alle rocce, alle pietraie; è il regno dei rododendri e delle stelle alpine. Notiamo che sulle cime più alte, nonostante sia luglio, restano delle ampie chiazze di neve.

Ancora strada, un tracciato sempre più sconnesso e difficile e arriviamo alla meta della nostra escursione: la Baita del Pastore a quota 2159 sul livello del mare. Non siamo soli, qualcuno c’è che vive qui, è il Pastore, con la sua famiglia. Fa freddo, siamo in alta quota e l’aria è rarefatta, pungente. Il Pastore e il nostro autista si conoscono bene ed è l’ora di gustare un formaggio appena preparato, su una fetta di pane cotto a legna e bere un bicchiere di latte appena munto. Sembra di sedere sul tetto del mondo, è l’immagine di un’atavica civiltà, primordiale, essenziale e Patrizia Longo impazzisce nel fotografare i garofanini e altri fiori di montagna, ma poi assistiamo ad uno spettacolo unico, grandioso. Le mucche escono, una alla volta da uno stazzo coperto con legno e lamiere e, per raggiungere il pascolo, sfiorano il precipizio. Ma c’è chi le guida, è un cagnolino che non lo pagheresti un soldo, il quale abbaiando e correndo, ringhiando e puntandosi sulla ghiaia, orienta le mucche nella direzione giusta. È assurdo, basterebbe un nonnulla perché una mucca cadesse giù nel precipizio. Questo rito, ci racconta il Pastore, si ripete ogni mattina, anche senza spettatori. A quel cagnolino andrebbe data ogni volta  na medaglia d’oro.

La nostra escursione si ferma qui, alla Baita del Pastore, più avanti è per gli escursionisti giovani e forti, perché un ripido sentiero sale fino a quota 2877 del Quinto Rifugio Alpini, tanto caro a don Antonino Guarracino e anche al Rifugio Bertarelli. Torniamo in albergo frastornati, felici, meravigliati da tutto quello che abbiamo visto, siamo stati ad un passo dal cielo.

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