Ciro Ferrigno in ’50 Anni di gite’ narra quella che fecero nel 2004 in Valtellina, dove ebbero modo di godere fino in fondo la bellezza di questo angolo di mondo e ci si organizzò per un fuoriprogramma d’eccezione
(Fonte Ciro Ferrigno – 50 Anni di gite)
Il venerdì 30 luglio 2004 è il penultimo giorno della nostra vacanza estiva in Valtellina; è il nono giorno di permanenza ed è prevista una mattinata di riposo, in vista del lungo viaggio di ritorno. Eppure, alcuni di noi siamo intenzionati a godere fino in fondo la bellezza di questo angolo di mondo e ci organizziamo per un fuoriprogramma d’eccezione. Nella piazzola dell’albergo Derby, dove soggiorniamo, ci aspetta un fuoristrada per un’escursione magnifica; abbiamo scelto la Valle dello Zebrù. Il conducente è un omaccione, un tipo “tosto”, un montanaro che conosce ogni angolo di questo paradiso che è il Parco Nazionale dello Stelvio.
Lasciamo la strada asfaltata dopo San Nicolò e Madonna dei Monti ed iniziamo la salita, percorrendo un’ampia mulattiera. Il fuoristrada entra nel pieno del bosco di abeti, tra scossoni che ci fanno sobbalzare e ridere a crepapelle. Dove il sole filtra tra i rami degli alberi, vediamo fiori multicolori d’alta montagna che formano chiazze di colore, poi ancora sorgenti e rigagnoli. Arriviamo alle Baite dello Zebrù e la guida ci suggerisce una breve sosta per guardare tutto intorno le montagne, le cime. Ce le indica con l’indice puntato verso il cielo: la Cresta del Reit sopra Bormio, sua maestà l’Ortles che sfiora i quattromila metri d’altezza, il Gran Zebrù, il Cevedale, il Vioz e la Punta San Matteo. Sono creste che come lame di coltelli tagliano l’azzurro del cielo, sfiorano l’infinito e ti fanno sentire immensamente piccolo.
Tornati in macchina, saliamo ancora e vediamo che gli alberi si diradano e cedono il passo alle rocce, alle pietraie; è il regno dei rododendri e delle stelle alpine. Notiamo che sulle cime più alte, nonostante sia luglio, restano delle ampie chiazze di neve.
Ancora strada, un tracciato sempre più sconnesso e difficile e arriviamo alla meta della nostra escursione: la Baita del Pastore a quota 2159 sul livello del mare. Non siamo soli, qualcuno c’è che vive qui, è il Pastore, con la sua famiglia. Fa freddo, siamo in alta quota e l’aria è rarefatta, pungente. Il Pastore e il nostro autista si conoscono bene ed è l’ora di gustare un formaggio appena preparato, su una fetta di pane cotto a legna e bere un bicchiere di latte appena munto. Sembra di sedere sul tetto del mondo, è l’immagine di un’atavica civiltà, primordiale, essenziale e Patrizia Longo impazzisce nel fotografare i garofanini e altri fiori di montagna, ma poi assistiamo ad uno spettacolo unico, grandioso. Le mucche escono, una alla volta da uno stazzo coperto con legno e lamiere e, per raggiungere il pascolo, sfiorano il precipizio. Ma c’è chi le guida, è un cagnolino che non lo pagheresti un soldo, il quale abbaiando e correndo, ringhiando e puntandosi sulla ghiaia, orienta le mucche nella direzione giusta. È assurdo, basterebbe un nonnulla perché una mucca cadesse giù nel precipizio. Questo rito, ci racconta il Pastore, si ripete ogni mattina, anche senza spettatori. A quel cagnolino andrebbe data ogni volta na medaglia d’oro.
La nostra escursione si ferma qui, alla Baita del Pastore, più avanti è per gli escursionisti giovani e forti, perché un ripido sentiero sale fino a quota 2877 del Quinto Rifugio Alpini, tanto caro a don Antonino Guarracino e anche al Rifugio Bertarelli. Torniamo in albergo frastornati, felici, meravigliati da tutto quello che abbiamo visto, siamo stati ad un passo dal cielo.