La pandemia ministeriale. Esteri (Di Maio) e Giustizia (Bonafede), due ministri pentastellati che collezionano disastri

Un Governo ancora senza un metodo e senza una strategia. “Il pesce puzza sempre dalla testa”

di Raffaele Lauro

LA PANDEMIA MINISTERIALE

In rapporto agli eventi degli ultimi giorni, necessita, senza indugio, esaminare un altro tema delicatissimo della nostra crisi politico-istituzionale, ormai irreversibile, dovuta alla inadeguatezza non soltanto del presidente del Consiglio dei Ministri, ma anche a quella, non meno grave, scandalosa e stupefacente, della maggiore parte dei membri del governo, con rarissime eccezioni. Si tratta di una pandemia ministeriale, in settori delicatissimi, che contribuisce a seminare incertezze e contraddizioni, a minare l’unità di indirizzo politico-amministrativo dell’esecutivo e, infine, a pregiudicarne, indebolirne e mortificarne la stabilità e la credibilità, sia interna che internazionale. Stabilità e credibilità che risultano vitali in una fase delicatissima dei rapporti con i partner europei e con le istituzioni finanziarie dell’Unione, in primis la BCE, ai fini del reperimento di risorse finanziarie essenziali e urgenti, non condizionate e a fondo perduto, per tentare, sia pure alla disperata, di contenere la crisi economica e sociale in atto e di evitare ulteriori declassamenti del nostro debito pubblico da parte delle maggiori credit and rating agency. Ci si limita, per ora, per sole ragioni di spazio, a prendere in esame la conduzione di due dicasteri strategici, come gli Affari Esteri e la Giustizia, i cui titolari, Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede, costituiscono i vertici maggiormente rappresentativi del partito di maggioranza relativa, il Movimento Cinque Stelle, uscito vittorioso dalle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Va precisato, in premessa, che, tra le tante anomalie e per chi non l’avesse ancora capito, questi esponenti, come tutti gli altri vertici governativi e parlamentari del movimento, vivono e operano in contatto e sotto il costante monitoraggio di una società, che ha trasformato i suoi interessi privati in agenda di governo, la Casaleggio Associati S.r.l., e una sorta di supervisione politica, a intermittenza e quando aggrada agli altalenanti umori del supervisore, di un comico genovese di fama. Giuseppe Grillo, detto Beppe, un comico che era bravo a farci ridere e che, ora, purtroppo, contribuisce, con la sua creatura, a farci piangere! Una sorta di originalissimo shadow cabinet, un governo-ombra all’italiana, che, paradossalmente, sembra sopperire a quello fantasma di un’opposizione politico-parlamentare di centro-destra, frammentaria, molto vociante e poco incidente. Si tratta, in questo particolare momento storico, accanto al dicastero dell’Economia e delle Finanze, di cui ci si occuperà in seguito trattando dell’operato dei ministri targati PD, delle politiche identitarie di un governo: la politica estera e la cooperazione internazionale; la politica della giustizia e i rapporti con il potere giudiziario. Non si possono comprendere i “disastri” degli ultimi giorni, che hanno riguardato i summenzionati ministri della Repubblica, prescindendo dalla formazione culturale e dal carattere dei protagonisti in oggetto, peraltro quest’ultimo assimilabile a entrambi, nonché delle loro pregresse esperienze professionali e delle loro principali performance comunicative. Quest’ultimo aspetto, peraltro, non trascurabile, trattandosi di soggetti politici scaturiti dalle viscere del web e portatori di una concezione digital-populista, giustizialista e assistenzialistica della politica e della democrazia.

LA POLITICA ESTERA: LUIGI DI MAIO, Il NOVELLO MARCO POLO

La responsabilità della politica estera e della cooperazione internazionale nel secondo Governo Conte appartiene a Luigi Di Maio, un “giovare prodigio” della politica italiana. Infatti, a soli trentaquattro anni (classe 1986), non ancora compiuti, è stato eletto per due volte alla Camera dei Deputati e ha ricoperto prestigiosi incarichi politici e istituzionali: vicepresidente della Camera dei Deputati, capo delegazione del M5S nel Governo Conte I, vice presidente del Consiglio dei Ministri, ministro dello Sviluppo Economico e, contestualmente, del Lavoro e delle Politiche Sociali, nonché capo politico del M5S, almeno fino al gennaio 2020, nonché ministro degli Affari Esteri attualmente in carica. Si può convenire, quindi, che abbia subìto una clamorosa retrocessione, politica e governativa, sul campo, anche se ora appare alla ricerca di una improbabile rivincita. La sua formazione culturale può dirsi incompiuta, in quanto, proveniente dal liceo classico, pur iscritto, in ordine successivo, a due facoltà universitarie a Napoli, Ingegneria informatica e, poi, Giurisprudenza, non ha mai completato gli studi universitari. Di esperienze professionali significative nessuna traccia, a parte autorivendicate consulenze informatiche o lavori saltuari, come quello di steward, in qualità di venditore di bibite, allo stadio “San Paolo” di Napoli. Un tipico impegno part-time da studente lavoratore, irriso pesantemente dai suoi avversari politici, che meriterebbe, al contrario, rispetto. Sono ben altre, e purtroppo troppe, le sue gaffe, linguistiche, geopolitiche e culturali, determinate da carenze formative di base, degne, quelle, di suscitare barzellette e risate conviviali, che, in questa sede, per carità di patria, per pudore e per ragioni di spazio, non troveranno albergo. Non si possono sottacere, tuttavia, a titolo di esempio, le sue più eclatanti contraddizioni (un masaniello anti-casta che si trasforma nella nuova casta al potere; un censore implacabile della lottizzazione partitica delle nomine che diventa uno battagliero spartitore di nomine governative, anche se per interposta persona; un nemico feroce del familismo all’italiana che si circonda di amici di Pomigliano d’Arco, insediati come collaboratori istituzionali o diretti, ben retribuiti e di dubbia competenza), le autoesaltanti e penose prese di posizione conseguenti a presunte vittorie politiche (indimenticabile il proclama paramussoliniano alle folle dal balcone di Palazzo Chigi sull’abolizione della povertà, come fosse un novello messia, per il quale episodio, che resterà nella disgustata memoria dei posteri, il consigliere di quella sceneggiata napoletana meriterebbe almeno l’ergastolo!), il delirio di onnipotenza (i molteplici e complessi incarichi, assolti in maniera superficiale e inconcludente), gli atteggiamenti paradittatoriali (le espulsioni a raffica, con un giudizio sommario, di iscritti al movimento o parlamentari, rei di aver manifestato libertà di pensiero, di non aver pagato l’obolo a loro imposto o di essere stati solo sfiorati da responsabilità penali) e le interferenze estere (nella politica interna francese, con il ricevimento dei gilet gialli; nella crisi presidenziale sudamericana). Questi fatti incontestabili evidenziano, da un lato, immaturità, inesperienza e impulsività, e, dall’altro, un carattere arrogante, un temperamento presuntuoso e del tutto incapace di commisurare gli incarichi rivendicati alle proprie capacità, ai propri palesi limiti. Le interferenze estere, in particolare, pesano come un macigno sull’attuale incarico e sui giudizi, che circolano nelle cancellerie del mondo occidentale, a partire dagli Stati Uniti d’America, condizionati dalle sue esplicite simpatie filo-cinesi e verso la dittatura di Xi Jinping, le cui motivazioni di fondo restano ancore oscure, sia che siano frutto di ingenuità, di smania di protagonismo oppure di una strategia elaborata dalla Casaleggio e Asssociati. Si tratta, comunque, di una conversione, in piena regola, sulla “via della seta” del nostro novello Marco Polo! Testimonianza di questo disastro che, nei fatti, mette in fibrillazione le nostre tradizionali alleanze occidentali, risulta la recentissima presa di posizione del governo americano, attraverso l’intervista a La Stampa del segretario americano alla Difesa, Mark Esper: “Cina e Russia sfruttano il virus per avere più potere in Italia!”. Nonostante i recuperi in calcio d’angolo del premier Conte, la politica estera italiana sta diventando inaffidabile per l’inavvedutezza e l’avventatezza dell’attuale ministro degli Affari Esteri della Repubblica Italiana. Anche Bettino Craxi non fece attenzione ai messaggi del Pentagono e mal gliene incolse!

LA POLITICA DELLA GIUSTIZIA: ALFONSO BONAFEDE, IL NOVELLO ROBESPIERRE

La responsabilità della giustizia, nei Governi Conte I e II, appartiene ad Alfonso Bonafede, un altro “giovane prodigio” della politica italiana. Di origini siciliane, di dieci anni più grande di Di Maio, è stato eletto, per il M5S, nel 2013 e nel 2018, alla Camera dei Deputati. Dopo essere stato, nel corso della sua prima legislatura, vicepresidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, ha ottenuto, nella seconda, il prestigioso incarico di Guardasigilli, confermato in due governi, per un merito conquistato sul campo: ha presentato a Grillo l’avvocato Giuseppe Conte, conosciuto nel periodo universitario a Firenze. Bonafede, infatti, si è laureato in Giurisprudenza a Firenze, dove ha conseguito anche un dottorato di ricerca e dove ha svolto (e svolge) la professione di avvocato civilista. Dal gennaio 2020, dopo le dimissioni di Di Maio, ricopre anche la carica di capo delegazione del Movimento Cinque Stelle al governo. È giudicato, per le ragioni di riconoscenza personale, un pupillo intoccabile del premier, il quale ne ha sostenuto “a spada tratta” iniziative legislative e proposte, sia nei confronti di Matteo Salvini prima che nei confronti dei ministri democratici dopo, ai quali ultimi, fino allo scoppio della pandemia, ha fatto digerire considerevoli “rospi”, come la riforma del processo penale, la cosiddetta legge spazzacorrotti, l’inasprimento delle pene per i reati di evasione fiscale, l’introduzione del reato di scambio politico-mafioso e, in particolare, la revisione della prescrizione, entrata in vigore il 1 gennaio 2020, dopo gli inutili altolà di Matteo Renzi, lo specialista delle minacce politiche senza seguito. Per queste e altre riforme, giudicate, in precedenza, dallo stesso PD come liberticide e violatrici di principi costituzionali, in particolare la modifica della presunzione di innocenza, diventata ormai presunzione di colpevolezza (di questo e altro, il Partito Democratico dovrà rispondere di fronte all’elettorato!), Bonafede si è affermato come un campione assoluto del giustizialismo grillino, ispirato, secondo le accuse delle opposizioni, dall’ala più giustizialista della magistratura italiana. In poche parole, un novello Robespierre! Sul piano caratteriale, Bonafede ha manifestato la stessa arroganza di Di Maio, specie nei confronti del PD, sempre più prono, una vanità tronfia e ostentata, una presunzione di sé, motivata forse dal sentirsi un intoccabile protetto del premier, di cui resta un inoppugnabile documento: il video pubblicato sui social network dal ministro, in occasione dell’arresto dell’ex terrorista Cesare Battisti. Valgono, comunque, per lui, le stesse considerazioni di rispetto fatte per Di Maio, a riguardo di attività svolte prima dell’impegno politico (nel caso di Bonafede, il lavoro di vocalist nelle discoteche), irrise dagli avversari politici, quasi fosse qualcosa di cui vergognarsi! A questo punto, tuttavia, il diavolo ci ha messo la coda, su un terreno, come la lotta alla mafia, delicato e devastante per il M5S, per il governo e per il nostro paese, un allentamento del contrasto alla mafia che, in passato, ha fatto vittime politiche ben più illustri dell’attuale Guardasigilli. Bonafede è finito, in poche ore, da accusatore a imputato politico, a somiglianza del rivoluzionario francese del Terrore, a causa della scarcerazione per i domiciliari, per ragioni di pandemia, decisa dai magistrati competenti, di 376 appartenenti alla criminalità organizzata, compresi i capi mafia, già al 41 bis. Questa gravissima evenienza è stata gestita da Bonafede in maniera imprevidente, superficiale e contraddittoria, sollevando un’indignazione generale. E i tentativi raffazzonati dell’ultima ora di rimettere in carcere quelle “brave persone” (una locuzione degli omertosi!) dei capi mafia, con un decreto-legge ad hoc, mentre altre decine di criminali, nel numero di 456, hanno già presentato richiesta di scarcerazione, conferma l’inadeguatezza al ruolo di Bonafede, un autentico disastro, che fa rivoltare nella tomba i veri eroi della lotta alla mafia, quelli che hanno sacrificato la loro vita, a partire da Falcone e da Borsellino. Non abbia timore, comunque, il signor ministro della Giustizia di perdere la testa, in senso fisico, come toccò a Robespierre (la ghigliottina parigina non va più di moda!), piuttosto di perdere l’incarico, trascinando con sé il governo (la ghigliottina mediatica italiana, infatti, tanto cara ai grillini, è in piena funzione!), se dovesse passare, con lo sfilacciamento della maggioranza, la mozione di sfiducia, presentata da un redivivo centro-destra, si spera non solo per fare “ammuina”, cioè il solito agitarsi a vuoto dell’opposizione!

L’AFFARE DI MATTEO, LO SCANDALO DELLA MANCATA NOMINA AL DAP NEL 2018

I fatti sono arcinoti. Nel corso di una trasmissione televisiva, il magistrato Nino Di Matteo, membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ha rivelato, per la prima volta, le vicende relative alla sua mancata nomina, nel giugno 2018, alla direzione del DAP, offertagli, come prima scelta, peraltro a esecuzione immediata, dal ministro Bonafede e, a distanza di 48 ore, da questi immotivatamente ritirata. Contestualmente, il ministro gli avrebbe rinnovato, insistendo, la seconda proposta di nomina, la direzione generale degli affari penali, meno significativa e peraltro procrastinata, non prima del successivo settembre, con la seguente (testuale) motivazione, riferita da Di Matteo in trasmissione e ribadita in interviste giornalistiche, rilasciate l’indomani a due quotidiani nazionali: “Su questa nomina non c’è dissenso o mancato gradimento che tenga”. Quindi, come da logica, la prima proposta era stata ritirata da Bonafede per dissensi o per mancati gradimenti, si presume politico-istituzionali. Non ci sono possibili interpretazioni alternative. La versione dell’alto magistrato è stato fermamente contestata, nell’ambito della stessa trasmissione televisiva e, l’indomani in Parlamento, da un “esterrefatto” ministro, che si è ingiustamente sentito sotto accusa per aver ritirato la proposta di nomina di Di Matteo al DAP, perché sarebbe stato condizionato dalla ribellione dei mafiosi carcerati o già ai domiciliari, perché sarebbe stato intimidito dalla mafia o, addirittura, perché avrebbe trattato con mafia che chiedeva di bloccare la nomina di Di Matteo. Va chiarito che il magistrato non ha mai ipotizzato una sola di queste ipotesi, neppure con allusioni. In questo gravissimo scontro istituzionale, tra un membro di un organo di garanzia dell’indipendenza della magistratura e un ministro della Giustizia in carica, peraltro precipitato, per responsabilità di entrambi, in un salotto televisivo, sono scesi in campo, a difesa dell’integrità antimafia del ministro, pur con motivazioni diverse, molti “pompieri”: il CSM, il M5S, il PD, il predecessore di Bonafede alla giustizia, i giornalisti notoriamente filogrillini, i governisti di tutti i colori e quei parlamentari, che temono, come la peste, una crisi di governo, lo scioglimento delle Camere a la non-rielezione, con la prospettiva di doversi accontentare di un reddito di cittadinanza o tentare di trovarsi, come dei comuni mortali, un lavoro.

Da qui è scaturita la presentazione di una mozione di sfiducia al Ministro, la cui accoglienza è temuta anche da qualcuno che l’ha sottoscritta, come lo stesso Berlusconi, e strumentalizzata da chi, come Renzi, “mercanteggia” con Conte il proprio sostegno al ministro. La mozione, con molte probabilità, non passerà, perché la paura delle elezioni anticipate resta l’unico, ma forte collante della maggioranza di governo. L’affare Di Matteo sarà archiviato nel silenzio omertoso della politica italiana, anche se resteranno agli atti, a imperitura testimonianza della superficialità e dell’inadeguatezza al ruolo di Bonafede, il quale ha indebolito la già scarsa credibilità del governo e sua personale. Restano, senza risposta, gli interrogativi sulla vicenda, tutti a carico del ministro. Perché il ministro non ha chiarito, in Parlamento, quali dissensi, e da chi, abbia subìto per arrivare a ritirare la proposta di nomina al DAP a un magistrato, esposto a permanente pericolo di vita, preferendogli un personaggio di minor prestigio, il quale si è rivelato, successivamente, non all’altezza dell’incarico? Perché il ministro ha tirato in ballo, indignato, un’accusa, mai rivoltagli da Di Matteo o da altri, in quanto si può escludere, in maniera assoluta, che il ministro abbia trattato con la mafia o si sia lasciato intimidire dalla stessa, salvo ipotizzare che sia impazzito? Perché il ministro non chiarisce bene il ruolo svolto da Conte o di altri in questa faccenda, dal momento che si può escludere, in maniera categorica, che non ne abbia preventivamente parlato con l’amico premier e con i vertici del M5S? Come mai il ministro non ha preventivato i contraccolpi di una circolare del DAP, inviata ai direttori delle carceri, finalizzata a monitorare e a segnalare lo stato di salute e di particolare fragilità di tutti detenuti, compresi i boss mafiosi, senza prevedere, per i più pericolosi, misure alternative ai domiciliari? Ingenuità, imprevidenza, superficialità, sprovvedutezza? Comunque, “un pasticciaccio alla Bonafede” per niente giustificabile! Sono le mancate risposte, almeno finora, a questi interrogativi a gettare una pesante ombra sull’operato del ministro che farebbe bene a rinunziare all’incarico, prima della discussione e il voto sulla mozione di sfiducia personale.

IL VIRUS DELL’ANNUNCITE. IL DOVERE DELLA VERITÀ, FINORA MANCATO. IL PESCE PUZZA SEMPRE DALLA TESTA

Naturalmente anche questi due summenzionati “protagonisti” continuano a essere affetti dal virus dell’annuncite, una sorta di “ansia da prestazione” che ha contagiato tutta la compagine ministeriale (verrebbe voglia di definirla compiagene!): proclamare, urbi et orbi, cotidie, provvedimenti di propria competenza, senza verificarne, a monte, la fattibilità e, a valle, il livello di attuazione. Una malattia dell’era digitale, di cui sono rimaste vittime persino i collaboratori straordinari (nel senso dell’incarico!), come il commissario Domenico Arcuri, il quale ha bruciato la sua residua credibilità istituzionale con la vicenda eroicomica del prezzo calmierato delle mascherine introvabili! D’altro canto, come stupirsi di ciò se il cattivo esempio è venuto dallo stesso capo del governo, un maestro di “grida spagnole” di manzoniana memoria e di “ludi digitali”, il quale si è prodotto, sia nella fase uno che agli inizi della fase due, in un vero diluvio di decreti, una cascata, scritti male, parzialmente applicati, senza aver mai avvertito un elementare dovere di verità in chi governa: fare un bilancio applicativo dei provvedimenti già varati, una verifica, prima di produrne di nuovi, onde testarne le criticità e non reiterarne gli errori, come avvenuto, invece, con il “Cura Italia” e con l’ormai mitico, in senso negativo, decreto “Liquidità”. Ora si è in trepida attesa del decreto-legge di aprile, diventato di maggio, annunziato dalle “trombe casaliniane” come il “parto mascolino del secolo”, di baconiana memoria, che proverà a dispensare, dopo i 400 miliardi precedenti, altri 55 miliardi, per la ripresa economica del paese. Ma chi li ha visti? Dove sono finiti? A chi sono pervenuti? Sarà un altro bluff, anche per quelle categorie economiche e sociali vanamente consultate da Palazzo Chigi, in conference call, e poi beffate, nella definizione dei contenuti dei provvedimenti? Categorie economiche e sociali che, come Confindustria, Confcommercio, Confapi e Unimpresa, accusano pesantemente, e a ragione, il Governo Conte di non avere ancora un metodo di governo e di mancare di una strategia, anche nella fase due, dopo i fallimenti acclarati della fase uno. E chiedono a gran voce che Conte prenda finalmente atto che i provvedimenti a pioggia, già varati, non hanno prodotto gli effetti desiderati e stanno gettando nella disperazione imprenditori e lavoratori. E che se si fallisse anche con il decreto di maggio, mancando di tagliare almeno l’IRAP, una decisione a effetto immediato, si arriverebbe a una resa dei conti dalle imprevedibili conseguenze, anche sull’ordine pubblico. Se i ministri girano a vuoto, come se fossero soggetti a un maleficio che li condanna all’impotenza, alla cecità e alla sordità di fronte a una realtà sempre più esplosiva, non lo è da meno, quindi, il responsabile principale di questo disastro, che appare nelle stesse condizioni psicologiche del re Luigi XVI di Francia o dello zar Nicola II di Russia alla vigilia delle rispettive rivoluzioni popolari. Conte dovrebbe sapere, e forse ignora, che gli errori, nella Storia, vengono imputati non ai comprimari, ma sempre a chi ha la responsabilità e la guida di un’organizzazione o di un gruppo di persone, statuale, governativo, aziendale o familiare, secondo un antico adagio della saggezza popolare, che recita: “Il pesce puzza sempre dalla testa!”.