La peste del 1656 nel racconto del lunedì

Arrivò anche a Carotto, nel Piano ed in tutta la penisola sorrentina, vi furono migliaia di vittime

Nel 1656, la terribile peste giunse a Napoli via mare, con una nave militare proveniente dalla Sardegna, dove il morbo galoppava. In pochi giorni la città fu letteralmente sconvolta e i morti si contarono dapprima a decine, poi a migliaia e dopo a centinaia di migliaia. Anche a Carotto il contagio arrivò dal mare; un certo Francesco Antonio Schiano, lasciò la capitale e si imbarcò alla volta della Marina di Cassano e, in paese, chiese ospitalità alla famiglia Cannavale, forse parenti o amici. In realtà l’uomo era ammalato e non lo sapeva, quello che noi oggi definiremmo un “asintomatico” e seminò la morte nella famiglia che l’aveva accolto, dove morirono ben cinque persone. Il contagio si estese a macchia d’olio, coinvolgendo dapprima le famiglie Cava e d’Angelo, poi ovunque intorno. Morirono 24 persone solo della parrocchia di Carotto, trecento nel Piano e più di duemila in tutta la penisola sorrentina.

Pure il parroco di San Michele, don Angelo Tobia Cennamo, morì vittima del morbo, egli che nei momenti di maggior pericolo non si era mai tirato indietro, soccorrendo i malati per portare una parola di conforto e l’estrema unzione. Era un gesuita, uomo di grande cultura e di forte temperamento e certo sapeva a cosa andava incontro, esponendosi. Preceduto dal tintinnabulum percorreva le vie del paese, con l’ostia consacrata, diretto alle case dei moribondi. Nelle strade deserte, solo la sua figura spettrale, un uomo di fede che non aveva paura di niente e di nessuno e fu vittima del suo coraggio.

Furono lunghi mesi di terrore e morte per un’epidemia mal fronteggiata dal viceré spagnolo Don Fernando Alvarez, il celebre duca d’Alba, che amministrava in una città senza rete fognaria, sovrappopolata e con poca acqua potabile. Egli era a capo di un governo inerte ed incapace che, tra le altre cose, giunse a far imprigionare i sindaci del Piano perché, in quel frangente, non avevano provveduto a pagare alla Regia Corte i “pesi” ovvero le imposte dovute!

I medici, quando si recavano a casa dei malati, indossavano un lungo mantello cerato, una protezione per gli occhi, i guanti ed usavano una maschera spaventosa, con un lungo becco, dentro il quale mettevano erbe aromatiche e disinfettanti; toccavano il malato solo con un lungo bastone, tenendosi sempre a debita distanza. Molti degli appestati, sentendo prossima la fine, chiedevano di potersi confessare e lo facevano dalle finestre e dai balconi, pubblicamente. È impressionante cercare e trovare le analogie tra quella terribile pestilenza e la pandemia del nostro tempo. Vedi l’uso dei balconi e delle finestre per comunicare, ma anche lo sforzo per evitare il contagio. I nostri antichi seppellivano i morti nei giardini di casa, nei bottai, nelle cantine, finanche in cucina, quelli che potevano utilizzavano i cunicoli sotterranei e le grotte dei valloni, pur di evitare di portare pericolosamente in giro i cadaveri infetti.

La presenza dello Stato era quasi inesistente, ma giungeva il “ristoro” di alcune anime sante; oltre al già citato parroco, un’altra figura si levò alta a spargere soccorso e luce, Renato Mastellone, il cui nome è associato a quel terribile morbo, come esempio di altruismo e di cristiana solidarietà. Confortava i morenti, mostrando il crocifisso e portava cibo alle persone sole e abbandonate e quei rimedi che all’epoca erano ritenuti efficaci per fronteggiare l’epidemia, o almeno per lenire il dolore. Non se ne stava chiuso in casa o nella canonica don Renato, e non ascoltava quelli che gli gridavano: “Restate a casa, restate a casa!” girava per le strade, anticipando di secoli la nostra Protezione Civile. In quel periodo fu determinante la presenza delle Confraternite. Prima tra tutte quella della Trinità, i confratelli dal saio dello stesso colore della Croce Rossa, i primi nel soccorso per vocazione e per statuto, poi i Neri della Morte ed Orazione, del Santissimo Sacramento di Mortora, quelli del Pio Monte dei Santi Prisco ed Agnello, dell’Annunziata, del Santissimo Crocifisso e Pio Monte dei Morti e dell’Immacolata, che erano la mano tesa della Chiesa e del popolo pronta a farsi carico di tutto ciò che all’epoca mancava: l’assistenza medica, la previdenza e via discorrendo. I confrati, per quello che potevano, soccorrevano i bisognosi, somministrando cibo e medicamenti, seppellivano i cadaveri.

In segno di lutto le campane erano legate, ma furono portati in processione Sant’Antonino, San Michele, la Madonna del Lauro e la Madonnina di Galatea. All’epoca le processioni penitenziali erano uno spettacolo agghiacciante: alcuni si battevano a sangue, altri portavano sul capo la corona di spine, altri si fustigavano, invocando a gran voce il perdono dei peccati. Molti si confessavano pubblicamente, gridando le loro colpe e l’aria era nauseabonda, puzzava di vino e sangue, quel nettare usato per disinfettare le ferite dei battenti. Naturalmente le masse che partecipavano erano coinvolte emotivamente, quasi in uno stato di trans e finivano per esporsi ancora di più al contagio. Ma, all’epoca, un’epidemia era considerata niente altro che un castigo di Dio.

Forse oggi dovremmo pensare che le malattie e le epidemie sono in gran parte il “castigo” per un rapporto sbagliato tra noi e la natura, ipotesi che poi non è molto lontana da quella dei nostri del 1656, considerando che il creato è opera di Dio.

 

Il racconto del lunedì di Ciro Ferrigno