Quando il violino prega: Maurizio Aiello

Ciro Ferrigno ne ‘Il racconto del lunedì’ racconta della sua inseparabile amicizia con lui e la sua carriera

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Foto tratta dal diario di Facebook di Ciro Ferrigno

Maurizio ed io siamo stati per tanti anni compagni di viaggio, abbiamo camminato assieme come due pellegrini sulla Via Francigena. Assieme all’Oratorio di San Nicola, nei Pueri Cantores, sotto gli stabilimenti Nettuno all’ombra per ascoltare per radio la Hit Parade in uno sconfinato gruppo di amici, in gita a Bari, quando indossava una simpatica paglietta. Tante volte mi sono trovato nel pubblico ad applaudirlo, quando lui ed il violino erano diventati inseparabili, dopo tanto studio e tanta passione, quale allievo del M° Luigi Schininà al glorioso Conservatorio di San Pietro a Maiella di Napoli. Maurizio rincorreva la perfezione e, più si impegnava, più sentiva che gli mancava qualcosa, perché sempre la grandezza si accompagna all’umiltà.

Pur essendo primo violino dell’orchestra del Teatro San Carlo di Napoli, sapeva di poter aggiungere tasselli al suo percorso artistico, quando a dirigere erano nomi del calibro di Ughi, Accardo, Oren o Muti. Maurizio era pur sempre figlio di un popolo di naviganti abituati a seguire la rotta guardando le stelle ed allora cercava con tutta la forza di alzare lo sguardo sempre in alto, agli astri più luminosi del firmamento musicale.

A trent’anni vinse il concorso nazionale per la Cattedra di Violino nei conservatori ed insegnò a Potenza e a Salerno per più di trentacinque anni. Al Martucci di Salerno nell’89 diede vita ad un’orchestra da camera di soli archi, composta da tutti i suoi allievi. Ai giovani studenti chiedeva quel cammino verso la perfezione che egli stesso inseguiva come una irraggiungibile chimera e, proprio questo sforzo costante consentì a tanti di loro di inserirsi in orchestre prestigiose, in Italia ed all’Estero. Fiore all’occhiello della didattica, dell’amore e della passione per il violino di Maurizio è la famiglia Gibboni di grandi violinisti dal padre, Daniele ai figli Annastella, Donatella e Giuseppe, tutti allievi del Nostro, dove proprio Giuseppe, forse, sembra avviato a diventare il Giotto che supera il Maestro Cimabue.

Era l’estate del 2018 e ricorrevano i 150 anni dalla morte di Gioacchino Rossini. Organizzammo un Recital dedicato al grande Musicista per la sera del dodici agosto, nel giardino di Villa Romano a Mortora. In quel periodo era in corso una raccolta di fondi a favore dei lavori al tetto della chiesa di Santa Maria Assunta e decidemmo di abbinare le due cose: l’omaggio al Rossini e la raccolta. Quando invitai Maurizio a partecipare, subito accettò con entusiasmo e generosità e, conoscendo la sua immensa bravura, buttai lì un’idea un po’ ardita.

Tra le opere di Gioacchino Rossini forse pochi conoscerebbero il Mosè in Egitto se non fosse per la magnifica aria per voci soliste, coro ed orchestra: “Dal tuo stellato soglio”, che è creazione di grande, anzi sublime bellezza. Sono poche frasi con lo stesso motivo, ma per voci diverse: “Dal tuo stellato soglio, Signor, ti volgi a noi! Pietà de’ figli tuoi! Del popol tuo pietà!” Parole avviluppate in uno snodarsi di note che creano un vortice ascensionale, caratteristico della musica del Rossini, presente nel Guglielmo Tell ed anche nello Stabat Mater dove l’Inflammatus e l’Amen del gran finale sembrano innalzarsi nella sfera celeste tra stelle e pianeti, galassie e fiammate di luci sideree. L’incanto di “Dal tuo stellato soglio” si realizza con cori polifonici, valenti orchestre. Ma può un solo violinista suonare questo brano e strapparlo al suo violino in un impeto di maestria e travolgere il pubblico, fino a sentire addosso i brividi e avere gli occhi arrossati? Maurizio ci riusciva, superava le difficoltà con disinvoltura, nella pienezza di una professionalità che sfiorava la magia. E si sentivano, nel vibrare delle corde, con le note, le voci dei solisti e del coro, complice il figlio Daniele che, con la chitarra classica, era l’orchestra e la musica diventava preghiera, invocazione, passione, pianto e ci si trovava ad occhi chiusi a cantare a labbra mute.

L’Artista produce, realizza, crea e lo fa attingendo ad un talento che è dono di Dio, quasi diventa compartecipe della creazione materializzando ciò che già era, senza forma e senza concretezza, aspettando solo di vedere la luce, di essere. La morte di un artista è incolmabile, lascia un baratro, un vuoto enorme e fa piangere due volte perché mancheranno per sempre l’Uomo, e l’Artista.