Ricordando quelle “Vecchie salumerie”

Il progresso ha portato tante innovazioni ed un insieme di regole e precetti che certamente servono alla salvaguardia della salute pubblica, anche se hanno finito per complicare la vita

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Ciro Ferrigno ne “il racconto del lunedì” oggi scende nel ricordo di quando c’erano quelle “Vecchie Salumerie”

Il progresso ha portato tante innovazioni ed un insieme di regole e precetti che certamente servono alla salvaguardia della salute pubblica, anche se hanno finito per complicare la vita. In particolare, in materia di commercializzazione dei generi alimentari, la Comunità Europea, con le sue direttive, ha dettato regole che hanno finito per dare alla catena distributiva un maggior rigore. Prima i prodotti erano esposti liberamente al sole e al vento, chi voleva staccava un pezzetto con le mani, saggiava, selezionava, sceglieva, riponeva al suo posto. Oggi c’è una maggiore cura dell’igiene, ma quanta e quanta plastica c’è ancora in giro! Tutto è confezionato, imballato, chiuso in busta, sigillato.

Ricordo le salumerie della mia infanzia, quei grossi banconi di legno, ugualmente le scaffalature, le ante con reti a maglie strette per tener fuori gli insetti, la grossa bilancia coi pesi di ferro, i grandi sacchi coi cereali e i “buccacci” con la marmellata che si vendeva sfusa. Le madie col pane esposto all’aria, le spolette, i panini ad olio, le rosette, i grossi pezzi di pane cafone. Ricordo la carta blu dei maccheroni e quella oleata necessaria per certi prodotti, le borse di pezza o paglia delle clienti e quelle bottiglie di vetro col vuoto a rendere. Senza plastica si viveva comunque!

Le vecchie salumerie avevano un profumo per ogni stagione, a Natale il miele e i pupazzi di cioccolata per l’albero e i panettoni Motta e Alemagna che si facevano concorrenza. Quando li aprivi il profumo di quei dolci si spandeva per tutta la casa, quella fragranza era meravigliosa, ora c’è rimasto solo il nome. A Pasqua c’erano le “scafaree” ripiene di grano in ammollo, necessario per le pastiere, ma le salumerie profumavano pure di confetti per le palme e c’erano i caciocavallini da legare ai rami d’ulivo. Sui banconi accatastati casatielli rustici e dolci, mentre con il pane c’erano i tortani con le uova. Lasciata la guerra alle spalle era tornata l’abbondanza, ma in quegli anni Cinquanta i soldi si spendevano con molta oculatezza, memori del tempo della fame e delle privazioni. C’era chi mormorava per una carta d’imballaggio troppo spessa e pesante, chi discuteva per il peso, i grammi e le lirette in più; la moneta aveva un suo valore e non erano consentite approssimazioni e sprechi, specie nei nostri paesi, dove i soldi arrivavano puntuali ma col sacrificio degli uomini sull’acqua salata. Per rispetto verso quel tipo di lavoro così duro, gli sperperi erano vietati. Il pane era sacro, guai a buttar via anche una scorza, c’era un timore riverenziale verso quell’alimento Corpo di Cristo. Quello raffermo diventava materia per fare polpette, bruschette, pizzette o per grattugiarlo. Chi come me ha vissuto quegli anni, anche se nella prima infanzia, tiene ancora dentro una specie di soggezione verso il pane e mai e poi mai ne butterebbe nella spazzatura.

Allora le “mie” salumerie erano Amalia a Via Casa Rosa, qualche volta Saveria ‘a Putecara a Bagnulo, poi Tummaso in Via San Michele; tutti avevano grembiuli bianchi e la penna poggiata sull’orecchio. Ricordo la smania per le lunghe attese e i profumi, quelle scaffalature coi contenitori di latta colorata, i cremini, le bottiglie di Vermouth e la caramella p’’o ciaturo che arrivava immancabile. E come una litania mia madre ogni volta diceva: “dice grazie a Amalia”, “dice grazie a Saveria”, “dice grazie a Tummaso”, perché allora le mamme avevano la fissazione di insegnare ai figli la buona creanza.

Gli anni Cinquanta erano fatti di cieli sereni e di speranza, di strade che profumavano di fiori d’arancio e fresie, di processioni, feste dei Santi e primi festival di Sanremo con le campane di San Giusto, Trieste e Vola colomba. Dopo ogni catastrofe tornano i cieli sereni dell’infanzia, come fosse un ritorno alle origini che chiama a una ripartenza. Tra poco ci risaremo e spero che sia tutto come allora, quando nelle salumerie dietro a quei grossi banconi ci trovavi di tutto, dopo tanto ci ritrovavi il pane e pure la felicità!

Il racconto del lunedì di Ciro Ferrigno