La febbre maligna, l’epidemia del 1674

Colpì in particolar modo la penisola sorrentina e seminò dolore e morte per quattro lunghi mesi, questo è il racconto del lunedì di Ciro Ferrigno

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Tra le tante epidemie che hanno flagellato la nostra terra nel corso dei secoli, ve n’è una che passa quasi inosservata, perché si manifestò pochi anni dopo la terribile peste del 1656. Si tratta di una febbre maligna che colpì in particolar modo la penisola sorrentina, nel 1674 e seminò dolore e morte per quattro lunghi mesi. Morirono circa ottanta persone ed infierì in modo particolare tra la nobiltà di Sorrento, dove si contarono ben venti decessi, persone ambosesso di giovane età. L’epidemia fu circoscritta al nostro territorio e ne è prova il fatto che molti nobili lasciarono Sorrento ed andarono a vivere a Napoli, dove avevano palazzi di proprietà. Certamente la drammatica esperienza della peste di diciotto anni prima fu utile per arginare i contagi e utilizzare rimedi e farmaci già testati nella precedente calamità. Fu una febbre maligna formaliter, capace cioè, di interrompere il normale scorrere della vita in modo violento e difficile da domare.

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Già nel secolo XVII molte imbarcazioni della nostra penisola erano utilizzate per i rapporti commerciali, intensi con tantissimi porti del Mediterraneo, principalmente con la Spagna che all’epoca dominava il nostro Meridione, ma anche con le sponde orientali, con l’Egitto, la Libia e la Tunisia. Le zone portuali, nei secoli passati, erano frequentate da persone di varie estrazioni sociali e con manovali, operai, pescatori e marittimi, circolavano figure losche e di malaffare: ladri, accattoni e prostitute che di sera affollavano taverne e bordelli, certamente frequentati da tanti dei nostri marittimi, e qualcuno finiva col contagiarsi fino a portare a casa qualche brutta malattia. Nel passato tutte le epidemie venivano bollate come “morbo asiatico”, perché provenivano, nella quasi totalità dei casi dall’Oriente, quello vicino, il medio e l’estremo.

Le distrazioni che offrivano i porti erano necessarie agli uomini che trascorrevano gran parte della vita sul mare. L’attesa del vento favorevole, le condizioni del mare, rendevano i viaggi lunghi e rischiosi, il cibo era di lunga conservazione ed il menù non offriva grandi variazioni, così come, tante volte, l’acqua da bere ed il vino stesso finivano per avere un sapore sgradevole e l’olio sapeva di rancido. Le prostitute, tante volte, aspettavano le navi già all’attracco ed in particolare all’arrivo di quelle napoletane, la terra degli uomini belli e virili e col danaro in tasca. Alcune addirittura salivano a bordo con la connivenza dei marinai responsabili alla guardia, per offrire il loro servizio, prima che gli uomini mettessero piede a terra. D’altra parte le donne orientali e quelle con la pelle scura, sono sempre state oggetto dei sogni erotici del maschio latino. A tale proposito don Alberto Cadolini affermava che “È vero, scappate e scappatelle nei vari porti, ma è pur vero che i marittimi sono gli uomini più fedeli alle loro mogli… non avendo il tempo per una relazione extraconiugale stabile!”

La febbre maligna del 1674 probabilmente arrivò in penisola sorrentina proprio per il contagio di qualche marittimo che lo trasmise ad un nobile, forse proprietario di nave, armatore o caratista, o solo interessato a ritirare della merce proveniente da un porto del Mediterraneo. Solo in tal modo si potrebbe spiegare il gran numero di giovani nobili deceduti, tutti appartenenti ad una casta che certo non aveva grandi aperture, contatti e frequentazioni con l’esterno. È una pagina triste che ci insegna che le malattie, le sofferenze e la morte sono patrimonio comune a tutti, nessuno escluso, proprio come ci ricorda Totò nella sua celebre poesia “A livella”.