L’antico Capodanno e gli usi del passato perduti

Ciro Ferrigno ne ‘Il racconto de lunedì’” narra che era il giorno dove bisognava preparare un pranzo augurale, solenne, con la speranza che per tutto l’anno, a tavola non mancasse mai il cibo e l’abbondanza del primo gennaio

Potrebbe essere un'immagine raffigurante incendio e attività all'aperto
Foto tratta dal diario di Facebook di Ciro Ferrigno

Ai giorni nostri, poco o niente rimane del modo antico di festeggiare l’arrivo del nuovo anno. Era quasi un insieme codificato di usi, andati quasi completamente perduti.

Il giorno di Capodanno bisognava preparare un pranzo augurale, solenne, con la speranza che per tutto l’anno, a tavola non mancasse mai il cibo e l’abbondanza del primo gennaio. Prima di ogni cosa la cesta coi dodici frutti diversi, a simboleggiare i mesi dell’anno. La notte era passata insonne. Dopo il cenone ed il brindisi di mezzanotte con lo sparo dei mortaretti, girava per le strade un nutrito gruppo di persone con strumenti popolari per il canto della Canzone di Capodanno e bisognava scendere per partecipare, vedere, sentire, cantare ed offrire qualche bicchiere di vino e dolciumi all’allegra brigata. Suonavano tammorre, putipù, scetavajasse, triccaballacche, nacchere, i piatti, qualche flauto agreste e poteva capitare che alla banda si unissero anche gli zampognari. La Canzone era nata proprio nel Piano in occasione del Capodanno del 1700 per poi diventare nota ed eseguita in tutto il meridione borbonico. Gli spari duravano ore, così come l’accensione dei bengala, poi di tanto in tanto si udiva un tonfo, un’altra tradizione era quella di buttare una pietra contro la porta di un malcapitato come augurio, pronunziando una specie di formula magica: “Tanto puozze aunnà chist’anne, cioè guadagnare, quanto pesa ‘a preta e ‘o padrone ccu tutt’’e panne!” Altri lanci avvenivano da balconi e finestre, giù nelle strade e si trattava di oggetti inservibili perché rotti o passati di moda. Poi in mattinata, per le strade, delle ragazze con grosse ceste di vimini, si dedicavano ad una tradizione più gentile, quella di offrire ai passanti un rametto di lauro, legato con un nastrino rosso, chiedendo l’offerta con la frase: “’O llauro a te, ‘a ‘nferta a me!”

L’arrivo del nuovo anno era un momento di grande festa, di baldoria e non c’era differenza di genere; uomini e donne rimanevano in strada fino all’alba per partecipare all’allegria generale e tante volte certe vecchiette spiritose e compiacenti interpretavano “la vecchia”, una maschera di carnevale che mima l’anno che finisce, si allontana e muore. Avevano un vestito di cenci ed un bastone pieno di sonagli con fiori di carta e nastri colorati. A Capodanno si metteva nel presepe un ultimo pastore, ancora la vecchia con Pulcinella sulle spalle, come simbolo del trapasso dell’anno. Infine, in alcune piazze o slarghi si preparava ‘o ciuccio ‘e fuoco, ovvero un fantoccio a forma di asinello sul quale si attaccavano i botti da far esplodere a mezzanotte.

Ma torniamo al pranzo di Capodanno; a tavola non potevano mancare alcuni elementi fortemente simbolici, coi quali si augurava fertilità, prosperità e benessere, erano i melograni, gli struffoli e le lenticchie, con allusione al seme maschile, capace di fecondare. Una volta i figli erano necessari come forza lavoro da impiegare negli agrumeti, negli uliveti e nei vigneti. Meglio se maschi, ma anche le donne avevano un peso non indifferente nelle attività produttive e basti pensare all’industria della seta con l’allevamento del baco e i telai o al confezionamento dei prodotti agricoli. In tutta la baldoria della festa per il nuovo anno, non mancavano gli eccessi, qualcuno si ubriacava, c’erano liti per i botti e le pietre troppo pesanti, ma poi tutto passava e si tornava alla quotidianità. I nostri antichi avevano una vita molto intensa: la produzione ed il commercio di agrumi, noci e olio, la seta, i cantieri navali, la pesca, la vita a bordo dei velieri e Capodanno era solo una parentesi festosa e trasgressiva, necessaria per stemperare l’ordinaria fatica.

A tal punto, viene spontaneo dire: Tornate, tempi della semplicità, del benessere, della produzione e che la nostra ricchezza non sia solo il ricavo dello svendere ad altri la nostra terra! Scendiamo di nuovo per strada, copriamo l’asfalto con foglie di lauro, cantiamo la Canzone di Capodanno, buttiamo le pietre augurali, accendiamo ‘o ciuccio ‘e fuoco e mangiamo tante lenticchie, struffoli e melograni, perché le nostre famiglie siano piene di bambini, di gioia e felicità. Impariamo ad amare di più la vita! E’ questo il mio augurio per il nuovo anno, il 2022!

Nelle fotografie, Capodanno a San Liborio 2017